L'Estate di Gino è il docufilm dedicato a Don Gino Rigoldi, che sta girando nelle sale in questi mesi trovando il favore di critica e pubblico. Abbiamo avuto la possibilità di intervistare il regista Fabio Martina e scoprire i dietro le quinte del progetto.

di Gabriele Lingiardi

Gino Rigoldi e Fabio Martina

Perché la scelta di raccontare un’estate nella vita di Don Gino Rigoldi?

 
L’idea del progetto è nata per raccontare un momento ordinario, in cui normalmente le persone interrompono le attività quotidiane e si prendono una pausa, di una persona niente affatto ordinaria. L’estate è tempo di svago, non si pensa al lavoro. Ma non è così per Gino. Mi interessava raccontare l’impegno di quest’uomo che ha fatto dell’aiuto agli altri l’attività quotidiana della sua vita, 24 ore al giorno 7 giorni su 7. Il suo lavoro lo segue anche in vacanza. L’estate è inoltre un momento di riflessione rispetto alla propria vita: una pausa che permette di riflettere su ciò che è stato. E io volevo fare lo stesso, per gli spettatori, con il film.
 

Come l’hai conosciuto?

 
L’ho conosciuto negli anni 2000. L’avevo contattato per il mio film precedente: L’assoluto presente. Volevo intervistarlo per approfondire i temi del film: i ragazzi d’oggi, la condizione dei giovani che non hanno né passato né futuro e vivono schiacciati nel presente. Tutti gli esperti che ho intervistato durante la lavorazione sono stati coinvolti anche nel film per recitare in un cameo, uno di questi è stato appunto Don Gino. Ha interpretato un senzatetto. Gli è piaciuto così tanto che siamo rimasti in contatto perché voleva assolutamente fare altro…
 

Quindi l’idea del documentario è nata da lui?

 
Più o meno… Lui mi aveva proposto di fare qualcosa assieme perché voleva raccontare la sua idea di chiesa in un film. Ma a me interessava di più raccontare lui, come “prete di frontiera”, che applica in maniera forte e letterale i dettami del Vangelo. La mia ricerca artistica è da sempre legata alle periferie e a queste figure religiose. Inizialmente volevamo girare il documentario a Milano, ma mi sembrava un tipo di Comunicazione troppo retorico e molto televisiva, poco interessante cinematograficamente. Ci siamo spinti in là, l’idea è arrivata quando mi ha detto che sarebbe andato in vacanza in Sardegna con i ragazzi di comunità. Avevamo trovato la chiave del racconto che volevamo fare.
 

Quanto ci avete lavorato?

 
L’anno prima di girare non abbiamo potuto lavorare perché i ragazzi avevano ancora processi aperti e problemi di natura giudiziaria. Non avrei potuto raccontarli così bene. Quindi abbiamo dovuto rimandare all’anno dopo. La lavorazione è stata quindi molto lunga, più di un anno, ma è servita a creare la fiducia tra di noi.
 
 

Come è Don Gino come “attore”? Sembra molto difficile da riprendere, una personalità così forte solitamente è difficile che si adegui alle esigenze del documentario e alle indicazioni di regia…

 
In realtà è molto preciso, fa quello che serve al film. Però si interroga costantemente su quello che sta facendo, è una persona molto razionale abituata a riflettere e pensare. Non è mai semplice raccontarsi ovviamente, per cui abbiamo dovuto lavorare tanto sul tono del documentario.
 

È un documentario molto oggettivo e analitico. Come hai fatto a “sparire” dietro a questi momenti molto intimi. Ad un certo punto addirittura Don Gino sgrida un ragazzo tornato a casa tardi la sera prima… non erano imbarazzati?

 
I ragazzi erano talmente dentro il progetto che si proponevano loro in prima persona. Hanno capito che era “un’estate” dove anche loro potevano raccontarsi. Quando l’hanno accettato è diventato più semplice non solo per osservarli, ma anche dargli indicazioni registiche. Ti faccio un esempio: la situazione che mi hai citato era accaduta la sera prima e non avevamo potuto riprenderla, ma mi interessava metterla nel film, quindi ho chiesto ai ragazzi se potessimo rimetterla in scena e hanno accettato volentieri.

 

Quanto tempo hai passato con i ragazzi della comunità?

 
Sono stato con loro per 3 settimane di riprese, ma il grande lavoro è stato fare accettare il progetto. I ragazzi prima di partire erano stati intervistati per capire come si sentivano di fronte alla videocamera. Erano preparati. Fino a una settimana prima di partire però non sapevamo chi sarebbe venuto per via di vari vincoli imposti dal tribunale. Durante le riprese si è però creato un forte legame, adesso siamo ancora amici.
 

Come mai hai scelto uno stile documentario così oggettivo, riprendendo azioni spesso non narrative come mangiare, osservare il mare?

 
Ho scelto un punto di vista semplice, con una camera sola, non per raccontare quello che accadeva costantemente e 24 ore su 24, ma scegliere dei momenti che ritenevo funzionali al film. Avevo la necessità di raccontare la relazione tra Don Gino e i ragazzi. L’ora del pranzo, forte momento di condivisione, è molto presente nel film perché secondo me racconta al meglio questo legame ed è pienamente cinematografico. 

 

L’estate di Gino ha la forza e il coraggio di non santificare la persona, ma di fare un ritratto lasciando il giudizio agli spettatori…

 
Assolutamente, era una cosa che volevamo evitare ad ogni costo. Non volevamo raccontarlo come un santo, ma come un semplice uomo. Non volevamo celebrare, ma lasciare il giudizio a chi guarda.
 

Che ruolo hanno secondo te i preti come don Gino nell’Italia di oggi, conflittuale e confusa?

 
È difficile parlare solamente di Italia, bisogna raccontare questi preti a livello universale, mentre sempre di più si perde l’idea di comunità e di relazione con l’altro . Il messaggio che portano queste persone, non è solo religioso ma anche politico, è il ritorno alla costituzione di una comunità che sia morale, etica e di condivisione, di interesse e di passione. Questa cosa l’abbiamo persa, ma anche il cinema può aiutarci a tornare a dedicarci l’uno all’altro. Non a caso il luogo perfetto per il cinema è la sala. E la sala è comunità.