di Gianluca BERNARDINI

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Bobbio: la città natia, cara, conosciuta, amata. Questo il luogo scelto, ancora una volta, da Marco Bellocchio che è tornato al Festival di Venezia con «Sangue del mio sangue», un film che mette insieme una storia del ‘600 con un’altra più odierna (intorno al 2000). Stesso convento ora castello, una volta abitato da Benedetta (Lidiya Liberman), una delle monache di clausura, murata viva per aver sedotto il suo confessore (una sorte di «monaca di Monza», tra l’altro già un «corto»), adesso rudere e sede di un vecchio «conte» (il grande Roberto Herlitzka), ufficialmente scomparso, che ogni notte da diversi anni lascia per aggirarsi in città come un «vampiro». Ancora una volta Bellocchio torna su uno dei temi cari alla sua filmografia (ricordiamo «Buongiorno notte», «Sorelle», «I pugni in tasca»), ovvero quello della libertà dell’individuo. Allora, nel ‘600, minata dal potere assoluto della Chiesa (capace di condannare e reintegrare «l’anima» del colpevole), oggi da una sorta di un complice potere vampiresco (come la vecchia Dc citata in conferenza stampa) pronto a utilizzare ogni sorta di paura (la scena dal dentista un vero «gioiello») per soggiogare le coscienze. Senza acrimonia, senza aggressività, il cineasta settantaseienne mette in scena un’opera molto «familiare» (nel vero senso della parola con la presenza dei due figli Pier Giorgio ed Elena, così pure il fratello Alberto), con un cast d’eccezione. La colonna sonora notevole (la presenza dei pezzi celestiali nonché moderni del coro «Scala e kolacny brothers») e la fotografia di Daniele Ciprì ne fanno un’opera di tutto rispetto, degna di concorrere all’interno di un festival. Resta qualche dubbio sull’operazione in generale che risulta un po’ troppo frammentata (non basta la presenza del medesimo «Federico» in ambedue gli episodi) e a tratti sfuggente. A quando una un po’ più «serena»?

Temi: libertà, coscienza, storia, poteri, lotta, globalizzazione.