Ce la stiamo mettendo tutta, con la gioia e l’entusiasmo di sempre, ma l’industria cinematografica è all’interno di un loop che appare, a prima vista, senza via di uscita.

di Gabriele Lingiardi

estate cinema

Le sale di tutta Italia hanno ripreso le loro attività da ormai più di un mese, seguendo i protocolli di sicurezza valutati dal ministero e dall’esercizio. Eppure il box office continua a sfiorare i minimi storici. Le cause sono molteplici: non aiuta l’esiguo numero di sale aperte, mitigato in parte dalla presenza di arene estive, e l’assenza di film da proporre.

Con il Coronavirus che continua a colpire forte gli Stati Uniti e il Sud America molti titoli di spessore come Tenet, Mulan, Black Widow, sono stati posticipati o rimandati a data da destinarsi. La distribuzione, sempre più legata a logiche di mercato “globale” con uscite day and date (in contemporanea) pianificate con lungo anticipo, ha le mani legate rispetto alla release di questi titoli in Europa. 

Il risultato è il cosiddetto “gatto che si morde la coda”. Con le sale in difficoltà per la mancanza di prodotto e i film che tardano ad uscire, poco stimolati da un mercato contratto. 

La situazione del teatro è ancora più critica, con le compagnie che faticano a trovare spazi e tempi dove provare ed esibirsi e con i teatri costretti a operare con una capienza molto limitata.

Ma come si riflette questa crisi della cultura sulla nostra estate?

È venuta a tutti la tentazione, nel bel mezzo della pandemia, di rifugiarci nelle cose essenziali: lavoro, affetti, problemi quotidiani. È diventato facile, con il passare dei giorni, guardare solo all’oggi cercando di navigarlo al meglio. Con una crisi economica che promette di essere solo all’inizio, il futuro è quanto mai incerto. Ma proprio per questo motivo abbiamo bisogno più che mai di cultura.

Il cinema, il teatro, la musica, che fino a ieri ci sembravano delle aggiunte “di lusso” al nostro stile di vita, si rivelano oggi ingranaggio essenziale per la tenuta della società. Si parla spesso di patrimonio culturale, di “bella Italia”, come di un bene immateriale fondamentale. Ma capiamo, vedendo i molti proclami senza seguito, come sia veramente difficile da fare proprio. 

La perdita per la cultura viene spesso identificata con il numero di posti di lavoro persi, con i musei che chiudono o con l‘ammanco in bilancio. Quello che non viene quasi mai considerato è invece la perdita di cultura.

Parliamo di quel senso comune di appartenenza, di quel dibattito sotterraneo che definisce gli usi e i costumi della società orientandone il progresso.

A causa del Covid si è persa gran parte della spinta propulsiva, data dal lavoro congiunto di passaparola, marketing ed entusiasmo verso il prodotto culturale.

Non bisogna pensarci troppo, quando si sceglie di pensare.

E invece la fruizione culturale è diventata un’attività che va scelta, pianificata e valutata attentamente. Il rischio, se questo mondo (che confina con il puro e semplice intrattenimento) dovesse tentennare ancora a lungo, è quello di uscire dalla routine del pubblico, di diventare la seconda scelta, dettata dalla noia e non dal valore intrinseco offerto.

Le abitudini di consumo culturale sono cambiate, e si sono fermate alla casa. Abbiamo riscoperto l’abitazione come luogo chiuso al mondo, ma al contempo accessibile dall’esterno grazie alla digitalizzazione. Abbiamo visitato musei, visto film, esplorato città tramite il nostro computer. E non siamo più disposti a rischiare (e pagare) uscendo di casa. Non ha aiutato certo il messaggio incessante, dato durante la quarantena, che ha associato i luoghi delle arti come pericolosi, molto di più di un treno o di una metropolitana.

A metà tra paura (ingiustificata) e scarso interesse, la sensazione è che il pubblico sia tornato al cinema non più per dare spessore al suo tempo, ma per occuparlo. Senza il marketing a fare da traino, anche la percezione del valore dell’oggetto culturale si è erosa.
Con un’industria cinematografica quanto mai dipendente dalla produzione statunitense, e una produzione europea ancora troppo poco attrattiva verso il pubblico dello stivale, la macchina si è arenata.

Per anni parte della fruizione di film in sala è stata associata a un bene esperienziale legato alla ristorazione o allo shopping. Quando si è ritrovato a viaggiare da solo, senza la fascinazione dei grandi centri commerciali o della “serata fuori” il cinema ha perso l’attrito con il pubblico. Forse, guardando l’ultimo ventennio, l’errore è stato proprio quello di relegare l’esperienza in sala come ciliegina sulla torta di una giornata in città, e non come la torta stessa!

Si può provare a ricominciare, in un’estate senza cinema che sembra ancora più povera e solitaria, rimettendo al centro il film. Ritroviamo l’orgoglio, come Sale della Comunità, di chi non ha mai smesso di credere che la cultura sia quel collante della società che va curato come una pianta in un vaso molto fragile. 

Un’estate senza cinema è un’estate senza quei viaggi impossibili che ci aiutano a sognare un mondo diverso.

La nuova normalità ripartirà da qui. Dal momento in cui le luci si spengono e ritorniamo ad essere uniti, guardando, nella stessa direzione, la fantasia di un artista.